DUE POLI, DUE PROGRAMMI, DUE LEADER

L'ULIVO COME LA QUERCIA HA L'HUMUS STATALISTA

Il programma di Prodi, espresso nelle ultime pubblicazioni, rappresenta un vero e proprio manifesto per la conservazione e l'aggravamento dei guasti della società italiana. Non si esce dall'interventismo statale, non si dà una risposta positiva alla domanda di liberalizzazione. Una proposta che non può soddisfare i moderati.

ANTONIO MARTINO

Il volumetto di Romano Prodi, Governare l'Italia, ha un sottotitolo promettente: Manifesto per il cambiamento. Il suo contenuto non ha però nulla di nuovo, sicché si tratta di un vero e proprio manifesto per la conservazione e l'aggravamento dei guasti della società italiana.

L'invadenza dello Stato, l'esosità fiscale, l'inefficienza dei servizi, la dilapidazione delle risorse e la mancata creazione di posti di lavoro sono problemi creati da un ceto politico che ha fatto dell'estensione della mano pubblica lo strumento attraverso cui dilatare, a scapito della società civile e dei bisogni dei cittadini, il proprio potere. L'unica ricetta che consente, sia pure gradualmente, di uscire da tale situazione consiste nell'allargamento degli spazi del mercato e nel restringimento di quelli dell'intervento pubblico. E' questa una ricetta chiara, resa indispensabile dai tremendi guasti che stanno davanti a noi e su cui c'è ben poco da discutere.

I giri di parole servono a poco. Andiamo subito alle cifre: nel 1970 la spesa del settore pubblico assorbiva il 36,3 per cento del Pil, nel 1980 il 43,6 per cento, nel 1993 il 59,1 per cento. Nello spazio di nemmeno una generazione, siamo passati da una situazione in cui l'utilizzazione del reddito era privata quasi per il 65 per cento a una in cui la quota privata supera appena il 40 per cento. E' così che lo statalismo non si è limitato a distruggere la nostra economia, ma ha anche spiazzato la società civile, espropriato la nostra libertà: perché, quando il fisco ci porta via, diciamo, il 50 per cento del nostro reddito, ciò significa che abbiamo dovuto lavorare sei mesi l'anno per il settore pubblico e sei mesi per noi e le nostre famiglie.

Prodi si avvita su se stesso. Sostiene (p. 24) di volere uno Stato "leggero". Di che si tratta? Di uno "Stato che organizza e affina le proprie funzioni di arbitro e che, quindi, determina le regole della concorrenza in tutti i settori, specialmente nei pubblici servizi, siano essi già in gestione privata o siano ancora governati dal controllo pubblico". Prodi ci assicura pure che il mercato deve avere un "grande" ruolo; ma aggiunge (p. 26) che "solo i paesi con strutture pubbliche forti e intelligenti sono capaci di costruire e conservare un elevato livello di benessere".

Non si esce, quindi, dall'interventismo, non si dà una risposta positiva a quella domanda di liberalizzazione che sale dalla società civile. Prova ne sia che Prodi crede ancora (p. 16) che la "presenza pubblica" abbia portato "grandi benefici nello sviluppo dell'economia"; afferma (p. 27) che "il mantenimento" del Welfare State rimane, "anche in un periodo di accentuata concorrenza internazionale e di mondializzazione dell'economia, uno dei grandi obiettivi di uno Stato moderno"; e si scaglia (p. 29) contro l'evasione fiscale, rea di rendere "insopportabile" il peso dell'imposizione sui "cittadini onesti".

Entriamo, però, più direttamente nel merito del suo documento. Prodi ritiene (p. 36) che bisogna introdurre "elementi di mercato" nel sistema sanitario nazionale, senza peraltro "diminuire drasticamente la spesa". Ma in quale modo Prodi vuole introdurre "elementi di mercato"? E come pretende di non ridurre la spesa? Già nel 1993 spendevamo ben 302.000 miliardi in prestazioni sociali; se quei soldi fossero andati al venti per cento più povero della popolazione, avrebbero garantito ad ognuno degli 11.437.000 italiani più poveri un reddito annuo aggiuntivo di 26.000.000 lire, cioè ben 104.000.000 lire per ogni famiglia di quattro persone. Si tratta, ovviamente, di un calcolo sovrasemplificato. Ma illustra perfettamente il livello di dilapidazione delle risorse raggiunto nel nostro Paese.

Interrogativi non meno inquietanti si possono sollevare a proposito della scuola. Prodi dice (p. 33) che l'attuale sistema è "fondamentalmente burocratico, centralizzato e rigido nei percorsi degli studenti"; in alternativa, parla di "autonomia degli istituti scolastici", ma senza disgiungerla da un "severo controllo di qualità". Come l'autonomia e la concorrenza fra scuole statali e non statali si possano realizzare resta un mistero. È favorevole Prodi all'introduzione del buono-scuola? E' favorevole al credito d'imposta a beneficio delle famiglie i cui figli frequentano scuole non statali? O vuole "convenzionare" le scuole libere e giungere così anche alla loro statalizzazione e alla soppressione di ogni autonomia e di ogni minimo grado di competizione?

Lo Stato "leggero" di cui parla Prodi non si può, pertanto, realizzare con le proposte da lui avanzate, che si pongono in netta continuità con il passato e che aggiungono interventismo a interventismo. Ciò che il Manifesto di Prodi si porta dietro è l'illusione ottica tipica dello statalismo. E' un errore che qui vorrei illustrare tramite le parole di Friedrich von Hayek. Questi ha scritto: "Poiché il valore della libertà si basa sulle opportunità che essa fornisce per azioni non previste e impredicibili, raramente siamo in grado di apprezzare che cosa perdiamo in conseguenza di una particolare restrizione di essa. Ogni restrizione (...) ha per scopo il raggiungimento di un qualche particolare risultato prevedibile, ma di solito non è noto ciò che essa impedisce. Gli effetti diretti di ogni interferenza (...) sono chiaramente visibili, ma altrettanto spesso gli effetti remoti e indiretti non saranno noti e quindi verranno trascurati. Noi non saremo mai completamente a conoscenza di tutti i costi resi necessari dal perseguimento di un particolare risultato attuato mediante una tale interferenza".

Ogni volta cioè che, tramite l'intervento statale, imponiamo alla società civile dei costi inutili o più elevati di quelli connessi ad una possibile soluzione di mercato, non dobbiamo farci abbagliare dai risultati immediatamente raggiunti, ma dobbiamo pensare a ciò che quello spreco impedisce in termini di sviluppo e di ricerca di soluzioni nuove. Perché lo sviluppo non è determinato da un "cervello sociale" pianificatore, da quelle "strutture forti e intelligenti" di cui parla Prodi e dietro le quali puntualmente ritroviamo esosità, inefficienza e corruzione; è generato dall'iniziativa di milioni di cittadini, che concorrono con le loro specifiche conoscenze e con le loro risorse a trovare soluzioni nuove e più vantaggiose per i problemi della collettività.

C'è ancora un punto su cui vorrei soffermarmi. Si tratta di una questione relativa alle aree del sistema politico. Prodi ritiene (p. 12) che la sconfitta dei progressisti alle elezioni del 27 e 28 marzo 1994 sia "dipesa dall'incapacità di individuare e proporre un leader come credibile candidato alla gestione del Paese"; può darsi che qui Prodi sopravvaluti se stesso. Il problema è, però, un altro. Non bisogna dimenticare che il dato strutturale su cui si è basata l'affermazione del Polo delle libertà è rappresentato dal vuoto politico determinato dal rifiuto di Segni e Martinazzoli di difendere le ragioni dei ceti moderati e di raccogliere la domanda di liberalizzazione proveniente dalla società civile. Prodi può, allora, ritenersi un leader più capace di quelli sconfitti alle passate elezioni politiche. Ma resta il fatto che il suo programma non si rivolge all'aria moderata e, in particolare, a coloro che vogliono impedire allo statalismo di portare a termine l'opera di strangolamento del mercato e dell'autonomia dei cittadini.


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