Questo articolo è molto lungo: salvalo e poi leggilo off-line

L'effetto placebo

Raffreddori, asma, ipertensione e malattie cardiache sono alcune delle numerose affezioni che rispondono al trattamento placebo,'

è giusto che i medici prescrivano "pillole di zucchero"?

 

di Walter A. Brown

 

 

Un paio d'anni fa, dopo una giornata di sci alpinismo con un tempo gelido, mi venne un forte mal di schiena. Anche allacciarmi le scarpe era una vera agonia. Nonostante il dolore, sapevo di non avere alcuna malattia seria, quindi ero certo di tornare a star bene in un batter d'occhio. Ma le giornate passavano senza che vi fosse alcun cambiamento. Non furono di giovamento neppure una fascia riscaldante e i suggerimenti di un amico con un problema cronico alla schiena (sdraiati, non portare pesi, fai attenzione ai movimenti bruschi). Dopo una settimana ero ormai disperato. Chiamai allora mio cugino Gary, un fisioterapista. I suoi consigli, quando mi era capitato di consultarlo a proposito di distorsioni e tendiniti, erano sempre risultati azzeccati. Ero quindi fiducioso di trovarmi nelle mani di un esperto. Come al solito, Gary fu ottimista e autorevole. Dopo aver ascoltato la mia storia e avermi sottoposto ad alcune manipolazioni, identificò i muscoli coinvolti. Mi disse di raffreddare la zona, mi prescrisse una serie di esercizi per allungare i muscoli contratti e mi suggerì di assumere ibuprofen. Alla fine della seduta, avevo ancora mal di schiena, ma avevo anche una tecnica per alleviare il dolore e la convinzione che sarei migliorato. La mia schiena non stava meglio, ma io sì. Evitai l'ibuprofen (mi mette sottosopra lo stomaco), ma applicai il ghiaccio e feci gli esercizi con scrupolo. Ogni volta mi sentivo veramente soddisfatto. Mi stavo finalmente curando. In due giorni il mal di schiena si ridusse a una fitta; in una settimana scomparve. Non so se il ghiaccio e l'esercizio avessero realmente guarito i muscoli infiammati e contratti o se sarebbero guariti da soli nello stesso tempo. Quello che so è che soltanto il fatto di chiedere e ricevere una cura mi aveva fatto sentire meglio - meno inabile, meno afflitto, più speranzoso - e questo aveva a sua volta accelerato la mia guarigione. Questi benefici sono chiamati, spesso in modo derisorio, effetto placebo.

 

UNA CURA EFFICACE

 

A partire dal secolo scorso, la medicina è diventata enormemente più scientifica: niente più pozioni, infusi e salassi del tempo antico. Eppure, i dottori e i loro pazienti continuano ad attribuire poteri di guarigione a pillole e procedure prive di alcun valore terapeutico per il disturbo da trattare (si pensi ai diffuso - e terapeuticamente inutile - utilizzo degli antibiotici per combattere raffreddori e influenze di origine virale). Alcuni studi, tra cui uno dell'US Office of Tecbnology Assessment, ipotizzano che solo il 20 per cento circa dei moderni rimedi medici di uso comune abbia un'efficacia scientificamente dimostrata; gli altri non sono stati sottoposti a prove empiriche per stabilire se funzionino o meno e, nel caso in cui abbiano efficacia, per capire il modo in cui agiscono. Non è che queste cure non diano benefici: spesso ne danno. Ma, in alcuni casi, il beneficio viene forse dall'effetto placebo, per il quale il solo fatto di essere sotto trattamento - per esempio consultando un esperto o prendendo una pillola - aiuta il paziente a guarire.Io ho condotto ricerche sull'effetto placebo fin dai primi anni ottanta. Nel corso dei miei studi, ho capito qualcosa sul modo in cui funzionano i placebo, sui motivi per cui sono screditati sia dai pazienti sia dai medici, e su chi abbia maggiori probabilità di trame beneficio. La mia informazione su questi argomenti è ben lungi dall'essere completa ma, sulla base di quello che so, credo che l'effetto placebo sia una componente efficace del processo di guarigione e che si dovrebbe fare di più per sfruttarlo e potenziarlo. ilmio interesse per l'effetto placebo nacque quando, insieme con i miei colleghi, scoprii qualcosa di inatteso mentre studiavamo la biochimica della depressione. Nel 1984, stavamo sottoponendo alcuni pazienti a test con l'ormone cortisolo, prodotto dalla ghiandola surrenale. Nel corso di lavori precedenti, noi e altri avevamo scoperto che circa la metà dei pazienti con grave depressione clinica produceva quantità eccessive dell'ormone. La nostra idea era che questo gruppo di pazienti avrebbe forse tratto maggiore giovamento dagli antidepressivi rispetto ai pazienti depressi con livelli normali di cortisolo. (Supponevamo che i pazienti con uno squilibrio biochimico avrebbero reagito meglio a un trattamento biochimico.) Per verificare questa ipotesi, registrammo i livelli di cortisolo in pazienti che stavano per diventare i soggetti di uno studio su un nuovo antidepressivo. Mihàly Aratò, un giovane psichiatra ungherese che allora lavorava nel mio laboratorio, si prese il compito di analizzare i risultati. A prima vista, le conclusioni erano deludenti. Contrariamente alla nostra ipotesi, i pazienti depressi reagivano in modo ugualmente positivo al farmaco, indipendentemente dalla quantità di ormone presente nel loro sistema. In realtà, invece, c'era una differenza sorprendente. La ricerca faceva parte di uno studio "a doppio cieco": alcuni pazienti erano trattati con un placebo, ma né i dottori né i pazienti sapevano chi riceveva il placebo e chi l'antidepressivo. Quando Arat6 esaminò i risultati del gruppo placebo, l'esito si rivelò sorprendente. In genere, dal 30 al 40 per cento dei pazienti depressi trae beneficio dall'assunzione di un placebo. In questo caso, quasi metà dei 22 pazienti con livelli normali di cortisolo si sentiva meglio dopo aver preso il placebo, ma tra i nove pazienti con livelli elevati non ci fu alcun miglioramento. Questi risultati, confermati nel nostro laboratorio e da altri ricercatori, indicano che i pazienti depressi che rispondono ai placebo sono biochimicamente diversi da quelli che non rispondono. Iniziai a chiedermi se non differissero anche in qualche altro modo, e la risposta risultò essere positiva. Le persone che soffrono di depressione a breve termine, della durata inferiore a tre mesi, per esempio, hanno maggiori probabilità di trarre giovamento da un placebo. Invece la depressione a lungo termine, di durata superiore a un anno o giù di lì, spesso non migliora con un trattamento a base di placebo.

 

 

ALLEVIARE. LA TENSIONE

 

L'effetto placebo non vale solo per la depressione o le malattie psichiatriche. Uno studio fondamentale condotto nei primi anni cinquanta da Henry K. Beecher della Harvard University suggeriva che per un ampio spettro di disturbi, tra cui il dolore, l'ipertensione, l'asma e la tosse, circa il 3040 per cento dei pazienti trae sollievo dall'assunzione di un placebo. In alcuni casi, la risposta può essere ancora maggiore: alla fine degli anni cinquanta, alcuni ricercatori guidati da Eddmunds G. Dimond del Medical Center dell'Università del Kansas stavano conducendo studi sull'efficacia di un intervento chirurgico allora abituale ma oggi caduto in disuso nel trattamento dell'angina pectoris (un dolore al petto provocato da un insufficiente afflusso di sangue al cuore). I medici eseguirono la procedura chirurgica (consistente nella legatura di alcune arterie) su un insieme di 13 pazienti, mentre su un secondo gruppo di cinque pazienti fecero solo un'incisione al petto senza ulteriore intervento chirurgico. Tra i pazienti su cui era stata realmente effettuata l'operazione, il 76 per cento ebbe un miglioramento. Ma quello che colpisce è che il miglioramento fu del 100 per cento nel gruppo placebo. Ma che cos'è esattamente questo trattamento con placebo che tiene testa con successo ai metodi tradizionali? Solitamente, i placebo non vengono definiti in termini di ciò che sono ma di ciò che non sono. Talvolta vengono descritti come agenti inattivi, ma appare invece chiaro che i placebo sono attivi: hanno un effetto, e spesso sono molto efficaci nel produrre risposte benefiche. Si dice, anche, che i placebo sono non specifici, forse perché producono miglioramenti in molteplici malattie e perché non si sa esattamente come agiscano. Eppure, da entrambi i punti di vista, i placebo non sono meno specifici di numerose medicine valide e riconosciute, come L'aspirina o certi tranquillanti. In termini più precisi, un placebo è una capsula o un'iniezione farmacologicamente inerte, anche se questa definizione non racchiude l'intero insieme di procedure che possono esplicare un effetto placebo. Attualmente, la situazione più comune in cui vengono utilizzate sostanze che siano riconosciutamente placebo è durante gli esperimenti clinici "a doppio cieco". I pazienti che assumono un placebo nel corso di questi esperimenti ricevono ben più di una sostanza farmacologicamente inerte: come i pazienti che ricevono un "vero" farmaco, beneficiano di un'indagine medica completa, della possibilità di discutere la propria condizione, di una diagnosi e di un programma di cura plausibile. Normalmente, i pazienti godono anche dell'entusiasmo, dell'impegno, della dedizione e del rispetto di dottori e infermiere. Questi fattori, spesso ritenuti marginali nel processo terapeutico, aiutano in misura notevole a capire il funzionamento dei placebo. L'ambiente terapeutico è un potente antidoto nei confronti della malattia. La decisione di chiedere aiuto a un medico ripristina un certo senso di controllo. I simboli e i rituali della cura - lo studio del dottore, il fonendoscopio, la visita medica - rassicurano. Una spiegazione della malattia e una prognosi, quando è favorevole, riducono il timore; ma perfino quando il referto è sfavorevole si attenua l'ansia provocata dall'incertezza. E il solo fatto di assumere una pillola può avere un effetto terapeutico. Per esempio, spesso si prescrive il farmaco propranololo dopo un attacco cardiaco per regolare il battito del cuore e prevenire un danno ulteriore. In un recente studio effettuato su più di 2000 pazienti, il tasso di mortalità era ridotto a metà tra i pazienti che assumevano regolarmente propranololo rispetto a quelli che prendevano il medicamento in modo meno regolare. Ma, nello stesso studio, anche tra i pazienti che prendevano regolarmente i placebo il tasso di mortalità era dimezzato rispetto a quelli che non li prendevano regolarmente, sebbene i due gruppi di pazienti sottoposti a placebo fossero del tutto simili dal punto di vista medico e psicologico. I placebo sembrano particolarmente affidabili ed efficaci per quelle affezioni in cui lo stato di tensione influenza direttamente i sintomi: in certe forme di depressione e di ansia, per esempio, l'angoscia è la malattia. Condizioni come il dolore, l'asma e una modesta ipertensione sanguigna possono peggiorare quando il paziente è agitato. Effettivamente, l'efficacia dei placebo potrebbe in parte dipendere dalla loro capacità di ridurre l'apprensione legata al disturbo. Studi effettuati sia su animali sia su esseri umani hanno dimostrato che il funzionamento del sistema immunitario si altera in condizioni di stress. La tensione, per esempio, accresce la secrezione di ormoni quali il cortisolo, e questo a sua volta riduce la resistenza alla malattia. Non è assurdo ritenere che i placebo, riducendo l'ansia, possano agire su innumerevoli mali, compresi alcuni che di solito non riteniamo influenzati dalla psiche.

 

 

GRANDI ASPETTATIVE.

 

Anche la fiducia che un paziente ha nel proprio miglioramento è di grande importanza. I ricercatori sanno bene che, per numerose malattie, i pazienti convinti di poter migliorare sono proprio quelli che hanno maggiori probabilità di migliorare davvero. L'aspettativa agisce anche a livello più specifico. Per esempio, quando ai soggetti di uno studio veniva detto che la loro bevanda famacologicamente inerte conteneva alcool, spesso si sentivano inebriati e agivano come tali, e alcuni mostravano addirittura i segni fisiologici dell'ebbrezza. Uno studio del 1968 condotto da Thomas J. Luparello nel Downstate Medical Center della State University of New York dimostrò che i pazienti con asma trattati con l'ausilio di un inalatore che conteneva solo acqua salata nebulizzata, ma a cui veniva detto che stavano inalando una sostanza irritante o allergenica, mostravano maggiori problemi di ostruzione delle vie aeree. Quando allo stesso gruppo veniva detto che l'inalatore conteneva un farmaco per alleviare l'asma, le loro vie aeree si aprivano. Data per dimostrata la loro efficacia, perché i placebo hanno una reputazione così dubbia? La stessa parola "placebo" ha una storia sfortunata. Termine latino per "piacerò", è la prima parola dei vespri per i riti funebri, e nel XII secolo era comune utilizzare la parola placebo per riferirsi a questi vespri. A partire dal Trecento, il termine si era secolarizzato e aveva assunto una connotazione peggiorativa, indicando un adulatore o un parassita, significato che derivava probabilmente dal disprezzo per i lamentatori professionali, pagati appunto per cantare i placebo. Quando la parola entrò nel lessico medico, la connotazione negativa rimase, indicando una medicina data più per far piacere ai pazienti che per dar loro giovamento. Nell'epoca moderna, diventò parte della definizione anche la mancanza di attività farmacologica. Il risultato è che il nome porta con sé connotazioni di inganno e inautenticità. Un mito moderno riflette questo pregiudizio: se una patologia migliora con i placebo, bisogna supporre che essa sia "psicologica". Ma i numerosi esempi di disturbi fisici - ipertensione, angina pectoris e asma, per dirne alcuni - che rispondono ai placebo dimostrano che le cose non stanno affatto così.

La grande efficacia di un placebo è fonte di turbamento per medici e ricercatori. Mette in dubbio il valore dei rimedi più "cari", intralcia lo sviluppo di nuove terapie, minaccia le fonti di guadagno. Eppure, visti gli stupefacenti progressi in campo diagnostico e terapeutico degli ultimi due decenni, compreso lo sviluppo di farmaci e protocolli indubbiamente efficaci, la comunità medica deve essere pronta - nella certezza della scientificità della medicina -ad accettare e fare buon uso di questo elemento della cura che in parte sfugge ancora alla nostra comprensione. Decenni di ricerca possono orientare i medici su come appropriarsi di alcuni aspetti dell'effetto placebo, in modo deontologicamente corretto, per rendere più efficaci le terapie riconosciute. Eppure, in molti casi questa via non è stata seguita, per quanto alcuni suggerimenti non siano affatto sorprendenti. Per esempio, i pazienti dovrebbero sentirsi fiduciosi e sicuri di trovarsi nelle mani di un terapeuta riconosciuto, un messaggio solitamente comunicato da diplomi, certificazioni professionali e strumenti medici bene in vista. Anche altri elementi associati al sollievo dai sintomi (un camice bianco, una visita, una prescrizione scritta quando necessaria) hanno un effetto rassicurante. La considerazione delle lamentele del paziente è molto più confortante di una diagnosi immediata, per quanto accurata essa sia. Ciò non significa che il paziente debba essere sottoposto a procedure diagnostiche non necessarie, ma semplicemente che il medico dovrebbe ascoltare con attenzione, porre domande appropriate ed eseguire un esame completo: il fatto che il paziente abbia per esempio una bronchite può risultargli ovvio in pochi secondi; cinque minuti in più per appoggiare il fonendoscopio sul petto, non aggiungono nulla all'accuratezza della diagnosi, ma accrescono la fiducia del malato. Medici e infermieri di un tempo sembravano capire in modo intuitivo l'importanza di questo atteggiamento. Anche oggi molti professionisti riconoscono il potere terapeutico della partecipazione emotiva alla visita medica, ma la necessità di fornire prestazioni "a costi compatibili" (soprattutto nel caso delle compagnie di assicurazione> fa perdere loro di vista questa componente essenziale di una cura efficace. La valutazione iniziale dovrebbe includere domande specifiche sulle precedenti esperienze del paziente con diversi rimedi, compresi i trattamenti (come le terapie alternative) che molti medici considerano placebo. Che cosa ha funzionato e che cosa no per questa persona? In particolare, il medico dovrebbe sollecitare il parere del paziente su ciò che potrebbe o meno essergli di aiuto per l'attuale disturbo.

 

 

LA DIAGNOSI

 

Quando è possibile, andrebbero fornite una diagnosi e una prognosi. In un recente studio condotto su 200 soggetti che lamentavano disturbi fisici ma non manifestavano malattie identificabili, i medici dell'Università di Southampton, in Gran Bretagna, dicevano ad alcuni pazienti che non si era trovata alcuna malattia seria e che sarebbero stati presto meglio; ad altri veniva detto che la causa del loro male non era chiara. Due settimane dopo, il 64 per cento del primo gruppo si era ristabilito, mentre nel secondo gruppo questo era accaduto solo per il 39 per cento. Se c'è bisogno di una particolare terapia, questa dovrebbe essere proposta con ottimismo realistico e con informazioni sugli specifici effetti auspicati: per esempio qualcosa come "questa medicina l'aiuterà a respirare", nel caso di un farmaco per l'asma. il medico dovrebbe anche informare sugli effetti collaterali e sul decorso più probabile dei sintomi. Queste informazioni accrescono la fiducia del paziente e la convinzione che il suo stato di salute è noto e controllabile. Se diversi trattamenti sono ugualmente appropriati, dovrebbe essere il paziente a scegliere; ma il medico dovrebbe offrire un numero limitato di opzioni (non più di tre o quattro), fornendo informazioni atte ad aiutare il paziente nella decisione. Consentire ai pazienti - per informati che siano - di scegliere qualsiasi terapia desiderino li priva dell'importante beneficio che deriva dalla richiesta di un consiglio medico. Se la gente vuole curarsi da sola, e molti lo fanno, non si rivolge agli esperti. Quando hanno a che fare con disturbi come il comune raffreddore, che abitualmente fanno il loro decorso senza alcun trattamento, oppure quando si trovano davanti a malattie come certi tumori per cui non ci sono cure efficaci, i medici spesso prescrivono palliativi per alleviare sintomi come la congestione o il dolore. Perché queste terapie risultino utili, però, è importante che siano offerte con la stessa serietà e autorità che si userebbe per fornire altri e più risolutivi rimedi. In pratica, però, non è sempre così. Spesso i pazienti raffreddati o influenzati si sentono dire che staranno meglio in pochi giorni, ma che se proprio vogliono delle medicine le prendano Pure': .Sentendosi abbandonati e privi di cura chiedono, e sovente ricevono antibiotici, sostanze farmacologicamente attive ma inadeguate al caso, che usano involontariarnente come placebo È probabile che quegli stessi pazienti si sentirebbero in modo molto diverso se, dopo un esame medico completo con strumenti diagnostici, venisse loro prescritto, con tanto di ricetta, un farmaco contro i raffreddori (anche nel caso in cui il farmaco sia da banco), spiegando come e in quanto tempo il medicinale risulterà utile. Alcuni di questi suggerimenti possono sembrare formulette di poco conto. Io li vedo come un approccio attento a capire tutti i processi coinvolti nella cura. Nel caso del comune raffreddore, un approccio di questo tipo potrebbe dare un grande contributo a ridurre l'inutile ricorso agli antibiotici, e quindi la spesa e i pericoli connessi a questa pratica.

 

 

LA PRESCRlZlONE DI PLACEB()

 

Che cosa si può dire dell'uso intenzionale dei placebo? È giusto che i medici, per valersi dell'effetto placebo, prescrivano farmaci o procedure che sanno privi .di valore intrinseco?

Molti esperti vedono in questo un dilemma apparentemente insolubile.. I medici sanno che, se dicono ai pazienti che stanno prescrivendo una pillola di zucchero, verrà meno la risposta al placebo, che dipende in parte dall'aspettativa dei pazienti di ricevere un rimedio plausibile. .D 'altra parte, dicendo ai pazienti che il placebo è una medicina farmacologicamente attiva, ci si assume la responsabilità di un raggiro inaccettabile dal punto di vista etico e, sul lungo periodo, privo di valore terapeutico. Credo che questo dilemma nasca in gran parte dalle connotazioni peggiorative associate ai placebo e dai diffusi dubbi sulla loro validità. Se i medici riuscissero a vedere i placebo - alla stessa stregua di molti farmaci tradizionali - come terapie. sostanzialmente efficaci, che hanno meccanismi d'azione ancora non del tutto chiari e che tendono a essere più efficaci per alcuni disturbi che per altri, allora potrebbero offrirli in modo onesto e presentarli come un trattamento plausibile. La decisione di prescrivere un placebo si dovrebbe fondare, come per tutti i farmaci, su una valutazione dei rischi e dei benefici. Il placebo scelto dovrebbe essere privo di tossicità e dovrebbe rispondere alle convinzioni e alle attese del paziente. A questo proposito merita notare che, secondo uno studio pubblicato nel 1993 sul "New Engiand Journal of Medicine", almeno il 30 per cento degli statunitensi adulti si rivolge alla medicina alternativa - per esempio ai massaggi,. all' omeopatia, alle cure spirituali e alle megavitamine - e che il numero totale di visite effettuate ogni anno da terapeuti alternativi è maggiore di quelle dei medici di base. Coloro che praticano cure alternative e i loro pazienti possono anche essere fermamente convinti dell'efficacia di megavitanne e miscugli di erbe,. ma è probabile che i benefici garantiti da molti di questi rimedi popolari derivino dall'effetto placebo. Allora, come può essere eticamente corretto prescrivere un placebo? Prendiamo in esame un esempio specifico: il trattamento dell'ipertensione di livello modesto o moderato. Prove cliniche come lo studio effettuato nei primi anni novanta da Barrr' J. Materson del Veterans Affairs Medical Center. di Miami, hanno dimostrato. che almeno il 20 per cento di chi si trova in questa condizione ritorna a una pressione normale dopo alcune settimane di placebo. Visto che la cura dell'ipertensione è costosa e presenta fastidiosi effetti collaterali, alcuni pazienti prenderebbero forse in considerazione il trattamento con placebo. Il medico potrebbe spiegare la situazione in questo modo: "Lei ha diverse. scelte. Una è assumere un diuretico, che probabilmente abbasserà la pressione del sangue, ma comporta anche effetti collaterali. Ci sono poi altre cure, meno costose e con minori probabilità di indurre. effetti collaterali, che sono utili a molte persone nelle sue condizioni. Alcuni trovano beneficio in un tè di .erbe due volte al giorno; altri trovano utili queste pillole prese due volte al giorno. Sono pillole che non contengono farmaci.. Noi non sappiamo perché il tè di erbe o queste pillole funzionino. Forse stimolano pro cessi di autoguarigione. Quello che sappiamo è che circa il 20 per cento delle persone con il suo tipo di ipertensione ritorna a valori normali usando questi metodi. Se decide di provare uno di questi trattamenti, controllerò i suoi progressi ogni due settimane. Se dopo sei settimane la pressione è ancora alta, dovremmo prendere in considerazione il diuretico". La malattia è abitualmente definita come uno stato anormale del corpo (iperglicemia, un avambraccio fratturato, una infezione ai polmoni). Ma la malattia è anche altro: è la sofferenza che accompagna il disturbo. Nella nostra cultura, pillole e altri simboli dell'arte medica hanno un grande peso nell'alleviare quella sofferenza. Come medici, dovremmo rispettare i benefici dei placebo - la loro innocuità, efficacia, basso costo - e trarre vantaggio da questi benefici nella nostra pratica quotidiana.

 

WALTER A. BROWN

fa parte del Dipartimento di psichiatria della Brown University Schcol of Medicine dal 1974. Dieci anni fa ha fondato un centro di ricerca nel Rhode lsland per condurre studi clinici sugli psicofarmaci. Membro dell'American Psychiatric Association e dell'American College of Neuropsychopharmacologv, attualmente lavora a una ricerca sulle variazioni dei parametri immunologici a seguito di emozioni sperimentalmente indotte.

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Parlare del placebo significa prendere in considerazione la genesi psicogena di molti disturbi fisici e il "vissuto" di malattia che ogni malanno obbligatoriamente comporta.

lì termine "psicosomatica" (ora sostituito nella diagnostica psichiatnca dal termine più appropriato "disturbo somatoforme") è stato introdotto in medicina negli anni quaranta dalla scuola psicoanalitica di Chicago. In Italia è entrato nell'uso comune Dopo la pubblicazione, all'inizio degli anni cinquanta, del fondamentale libro di Franz Alexander Psychosomallc Medicine, tuttora meritevole di lettura.

Scriveva Alexander nel suo libro: "lì paziente, in quanto essere umano, con le sue precccupazioni, paure, speranze e disperazioni, entità indivisibile e non mero portatore di organi (di un fegato o di uno stomaco in disordine) sta diventando ancora una volta l'oggetto legittimo dell'interesse medico) ".

La aspettative dello studioso americano sono andate in buona parte deluse in questi anni: un biologismo sempre più imperante tende a trasformare il medico proprio in quella sorta di "ingegnere del corpo umano" paventato da Alexander. Nell'accettare la dicotomia corpo-psiche il rischio è infatti di perdere 'a comprensione del paziente come un "tutto" e di rinunciare a un importante elemento dell'armamentario medico se non, talvolta, a scoprire la vera radice di un disturbo. In altri termini, quando si riconoscono l'origine o le componenti psicogene di un disturbo fisico, diventa indispensabile affrontarne gli aspetti psichici, oltre che, naturalmente, intervenire sintomatologicarnente sulle sue conseguenze somatiche.

Ma che cosa accade negli ambulatori e nelle corsie, al di là delle affermazioni di principio? L'arte medica nel suo insieme è cosciente delle componenti psicologche connesse con la malattia e dell'importanza del rapporto medico-paziente, all'intemo del quale si colloca "anche" l'uso dei placebo descritto nell'articolo?

Nel 1972 Boringhieri pubblicò un volume (ormai esaurito) dell'italo-americano Pietro CasteInuov~Tedesco dal titolo L'ora di venti minuti in cui l'autore proponeva che fosse proprio il non specialista in psichiatria ad affrontare le componenti psicologiche e affettive emergenti dai racconti o dai "sintomi" del paziente. Castelnuovo-Tedesco indicava appunto in 20 minuti il tempo da dedicare, all’interno dell'ora di accertamenti fisici specialistici, a "parlare con la persona-paziente", che spesso presenta disturbi senza riscontro organico, ma meritevoli di un intervento sul piano emotivo pur non richiedendo, salvo casi di particolare gravità, Io psichiatra.

L'impressione è purtroppo che i budget limitati e l'esigenza del risparmio facciano sempre più diminuire Io spazio "per parlare al paziente", per "cercare di conoscerlo come persona". Questo approccio viene spesso ignorato anche a livello di formazione universitaria e postuniversitaria. Diviene, oltre tutto, difficilmente praticabile in una medicina, come quella italiana, che insegue un'efficienza di facciata, talvolta in contrasto con la reale terapeuticità dell'intervento, e con le aspettative, magari tacite, dei cittadini, cui la Costituzione riconosce un diritto alla salute sempre più difficile da tutelare, benchè sempre più costoso.

Francesco Bollorino

 

LE SCIENZE N.355 MARZO 1998